Hai appena passato settimane a sgobbare su un progetto come un dannato. Notti insonni, weekend sacrificati, caffè a litri. Poi arriva la riunione con il capo e il tuo collega – quello che hai visto connesso su Teams tre volte in croce – si alza e dice: “Sono davvero orgoglioso del risultato che ho ottenuto”. Che. Ho. Ottenuto. Singolare. Io. Nessun accenno al team, nessun “noi”, solo un glorioso e sfacciato “io”.
Se ti è mai capitato, sai esattamente di cosa stiamo parlando. E sai anche quanto fa incazzare. Ma quello che forse non sai è che dietro a questi comportamenti – quelli in cui qualcuno gonfia sistematicamente i propri risultati, si appropria dei meriti altrui o racconta al capo di vittorie che nessun altro ha mai visto – c’è spesso qualcosa di molto più complesso della semplice stronzaggine. La psicologia del lavoro ha studiato questi fenomeni per decenni, e quello che ha scoperto è sorprendente: a volte chi mente di più sulla propria produttività è proprio chi si sente meno sicuro di sé.
Sì, hai letto bene. Quella persona che si vende come il salvatore dell’azienda potrebbe essere terrorizzata dall’idea di essere scoperta come inadeguata. E no, non stiamo facendo psicologia da bar: ci sono studi seri che collegano comportamenti di disonestà lavorativa a insicurezza profonda, sindrome dell’impostore e paura cronica del fallimento. Ma andiamo con ordine.
Cos’è questa “infedeltà sul lavoro” di cui stiamo parlando?
Partiamo dalle basi. Quando diciamo “infedeltà sul lavoro” non intendiamo quella roba legale e grigia dell’articolo 2105 del codice civile – quello che parla di concorrenza sleale, furto di segreti aziendali e roba seria che ti porta davanti al giudice del lavoro. Qui parliamo di infedeltà relazionale, quella che tradisce la fiducia del team, il patto non scritto che tiene insieme un gruppo di persone che lavorano verso un obiettivo comune.
Nel mondo della psicologia organizzativa si chiama workplace dishonesty o organizational deviance, e include tutta una serie di comportamenti che vanno dal gonfiare i risultati al prendersi meriti altrui, dal falsificare leggermente i dati alle bugie strategiche ai superiori. Niente di clamorosamente illegale, ma abbastanza tossico da mandare a puttane il clima di un intero ufficio.
Gli studi su questi comportamenti controproducenti sul lavoro mostrano che sono molto più diffusi di quanto pensiamo. E la cosa interessante è che non sono distribuiti a caso: ci sono contesti, culture aziendali e personalità che li favoriscono.
I 4 segnali che il tuo collega sta “imbrogliando” sui risultati
Allora, come fai a capire se hai davanti un semplice egomaniaco o qualcuno che sta attivamente costruendo una versione falsa della propria produttività? Ecco quattro campanelli d’allarme che, secondo la ricerca sul comportamento organizzativo, dovrebbero farti drizzare le antenne. Attenzione: non stiamo parlando di episodi isolati, ma di pattern ripetuti nel tempo. Tutti possiamo esagerare ogni tanto, ma qui parliamo di chi lo fa sistematicamente.
Segnale numero uno: i numeri non tornano mai
Il primo segnale è l’incoerenza cronica tra quello che dice e quello che puoi verificare. Il collega racconta di aver chiuso quindici contratti questo mese, ma quando vai a controllare il CRM ne vedi cinque. Dice di aver lavorato tutta la notte su quella presentazione, ma la cronologia del file su Drive mostra che è stato modificato solo il giorno dopo alle dieci del mattino. Parla di riunioni produttive con clienti importantissimi che però nessun altro del team ha mai incontrato.
Questo tipo di incoerenza sistematica tra dichiarazioni e dati verificabili è uno dei più grandi red flag negli studi sul comportamento organizzativo. Quando diventa un pattern – non un errore una tantum, ma una costante – significa che la persona sta costruendo attivamente una narrazione alternativa della propria performance. E lo sta facendo in modo abbastanza strategico da sembrare credibile al primo sguardo, ma abbastanza sciatto da lasciare tracce evidenti per chi controlla.
Segnale numero due: “Io” al posto di “Noi”
Secondo campanello d’allarme: la persona presenta sistematicamente i risultati del team come risultati personali. Certo, tutti usiamo “noi” quando le cose vanno male e “io” quando vanno bene – è umano. Ma qui parliamo di qualcosa di più strutturato e deliberato: la cancellazione attiva del contributo altrui.
Gli studi sull’impression management – cioè la gestione strategica dell’immagine professionale – mostrano che alcune persone usano questa tecnica in modo sistematico per apparire più competenti e indispensabili. Nelle email scrivono “ho risolto il problema” anche se il problema l’avete risolto in tre. Nelle riunioni dicono “il mio progetto” anche quando il progetto ha un nome collettivo e un team assegnato. E la cosa più significativa? Reagiscono malissimo quando qualcuno cerca di riequilibrare la narrazione.
Se dici “veramente a quel progetto abbiamo lavorato tutti”, non ottieni un imbarazzato “ah sì, scusa, intendevo dire noi”. Ottieni fastidio, difensività, a volte vera e propria rabbia. Perché? Perché non si tratta di una svista: quella narrazione è stata costruita con cura, e metterla in discussione significa minacciare un castello di carte faticosamente eretto.
Segnale numero tre: l’allergia alla trasparenza
Terzo segnale, più sottile ma devastante: il collega evita sistematicamente di condividere processi, dati, file di lavoro. Quando gli chiedi “come hai fatto?” o “mi passi il file così vediamo insieme?”, le risposte sono sempre vaghe, elusive o direttamente inesistenti. Il file è a casa, deve riorganizzare i dati, deve chiedere al cliente, è tutto nella sua testa e difficile da spiegare. C’è sempre una scusa plausibile, ma il risultato è sempre lo stesso: nessuna trasparenza.
La letteratura sulla fiducia organizzativa è chiarissima su questo punto: la condivisione di informazioni, strumenti e metodi è uno dei pilastri della collaborazione efficace. Chi lavora davvero bene, chi ha risultati solidi, di solito è felice di condividerli perché la trasparenza rafforza la sua posizione. Chi invece costruisce castelli di sabbia preferisce che nessuno si avvicini troppo, perché sa che un esame attento farebbe crollare tutto.
Attenzione però: non stiamo parlando della legittima protezione del proprio metodo di lavoro o della privacy. Il segnale d’allarme scatta quando l’opacità diventa la norma, soprattutto se accompagnata da grandi dichiarazioni di risultati straordinari che però nessuno può verificare.
Segnale numero quattro: il re del mondo o la vittima del sistema
Quarto e ultimo segnale: la persona oscilla tra presentarsi come assolutamente indispensabile e reagire in modo spropositato a qualsiasi minima critica. Da un lato dice “senza di me questo posto affonda”, dall’altro interpreta una domanda innocente come un attacco personale. Un feedback costruttivo scatena o una difesa aggressiva o un crollo emotivo totale.
Qui entriamo in un territorio psicologico affascinante: la sindrome dell’impostore. Descritta per la prima volta da Pauline Clance e Suzanne Imes nel 1978, questa condizione psicologica fa sì che persone anche molto competenti vivano i propri successi come immeritati, frutto del caso o dell’inganno. La cosa controintuitiva è che non tutte le persone con questa sindrome sono timide e ritirate. Alcune compensano quella insicurezza profonda con una facciata di sicurezza estrema, costruendo un’immagine di sé ipertrofica.
Il problema è che questa immagine è fragilissima. Basta una domanda, un dubbio, una richiesta di chiarimento per far tremare l’intera struttura. E quindi la difesa deve essere sempre massima, sempre pronta, sempre sproporzionata rispetto allo stimolo. Perché in gioco non c’è solo “ho fatto un errore in questo report”, ma “sono un bluff e stanno per scoprirmi”.
Perché qualcuno dovrebbe comportarsi così? La psicologia dietro la bugia professionale
Okay, fin qui abbiamo visto i segnali. Ma la domanda vera è: perché diavolo qualcuno dovrebbe mentire sistematicamente sulla propria produttività? La risposta facile sarebbe “perché è stronzo”. Ma la psicologia organizzativa suggerisce qualcosa di più complesso e, stranamente, più umano.
Alla base di questi comportamenti c’è spesso un mix esplosivo di insicurezza personale e ambiente di lavoro tossico. Pensa di lavorare in un contesto dove conta solo il numero, dove la cultura aziendale premia chi si vende meglio indipendentemente dalla qualità reale del lavoro, dove un trimestre sottotono può significare la fine della tua carriera. In questo scenario, mentire sulla propria produttività può diventare, per alcune persone, una strategia di sopravvivenza.
Gli studi sui comportamenti controproducenti al lavoro evidenziano che alcuni fattori organizzativi aumentano drammaticamente la probabilità di questi comportamenti: precarietà lavorativa percepita, leadership punitiva invece che supportiva, sistemi di valutazione basati solo su KPI quantitativi senza controllo qualitativo, cultura aziendale del winner-takes-all. In altre parole, non è solo la persona a essere problematica: è il sistema che la incentiva a esserlo.
Poi c’è la componente individuale. Chi sviluppa questi pattern spesso porta con sé fragilità profonde: bassa autostima reale nonostante la facciata di sicurezza, bisogno ossessivo di approvazione esterna, paura del fallimento vissuta come catastrofe identitaria. Il proprio valore personale è completamente appeso alla performance professionale, e siccome quella performance reale non sembra mai abbastanza, si ricorre alla finzione.
E qui arriviamo al punto più interessante: la ricerca sulla sindrome dell’impostore mostra che chi vive il proprio successo come immeritato può sviluppare strategie compensatorie diverse. La maggior parte delle persone con questa condizione diventa iper-onesta, iper-performante, iper-critica verso se stessa. Ma una minoranza, soprattutto in contesti molto competitivi o percepiti come punitivi, sviluppa invece strategie di auto-presentazione poco trasparenti: esagerare i successi, minimizzare gli errori, prendersi più meriti del dovuto. Non perché siano cattive, ma perché sono terrorizzate dall’idea di essere scoperte come inadeguate.
L’effetto valanga: come un collega disonesto contamina tutto il team
Ora, potresti pensare: “okay, ma se il mio capo ci casca, sono cazzi suoi”. Purtroppo la ricerca sul clima organizzativo è chiarissima: quando la disonestà diventa visibile e impunita, contamina l’intero gruppo come un virus.
Primo effetto: erosione totale della fiducia. Gli studi sulla fiducia nei team mostrano che percepire favoritismi, ingiustizie o tolleranza verso comportamenti opportunistici distrugge la fiducia sia nei colleghi che nel management. E la fiducia è il cemento delle organizzazioni: quando si sgretola, tutto diventa più difficile, più lento, più conflittuale.
Secondo effetto: normalizzazione del comportamento. Le ricerche sulle norme sociali dimostrano che tendiamo a conformarci a ciò che viene percepito come normale o premiato nel nostro gruppo. Se vedo che chi esagera i risultati viene promosso e chi è onesto viene ignorato, il mio cervello registra il messaggio: “qui funziona così”. E la probabilità che anch’io inizi ad adattarmi aumenta, anche se all’inizio ero contrario.
Terzo effetto: burnout e cinismo dilagante. Per chi continua a lavorare seriamente, vedere i propri sforzi sminuiti o attribuiti ad altri è devastante. Si sviluppa quella che gli studiosi chiamano percezione di ingiustizia organizzativa, collegata a esaurimento emotivo, cinismo e voglia di mandare tutto a quel paese.
Quarto effetto: il team esplode. Un clima in cui la disonestà è tollerata favorisce conflitti, sotto-gruppi, sospetti. Il “noi” coeso si trasforma in una collezione di “io” in guerra, con aumento di comportamenti difensivi: trattenere informazioni, ridurre la collaborazione, sabotaggio passivo.
Cosa puoi fare senza trasformarti in Sherlock Holmes o Freud
Bene, hai riconosciuto i segnali. E adesso che fai? Ecco alcune strategie basate su evidenze psicologiche e best practice organizzative.
Prima di tutto, evita la diagnosi fai-da-te. Riconoscere un pattern comportamentale non significa sapere cosa c’è nella testa dell’altro. Il tuo obiettivo non è capire se ha la sindrome dell’impostore o è solo un opportunista, ma proteggere il tuo lavoro e il tuo benessere. Attieniti sempre ai fatti: non “secondo me esagera”, ma “nel report X risulta Y mentre lui ha dichiarato Z”. Documenta le discrepanze con dati oggettivi, timeline, email, file condivisi. La concretezza è il tuo miglior alleato.
Usa la trasparenza come armatura. Nei progetti comuni, stabilisci da subito sistemi chiari di tracciamento dei contributi: file condivisi con cronologia, task assegnate per iscritto, recap delle riunioni via email. Sembra burocratico, ma è protezione pura. Quando qualcuno si prende un merito che non gli spetta, comunica in modo assertivo evitando l’attacco personale: “In realtà a quella parte del progetto ho lavorato io, insieme a Marco”. Punto.
Se il comportamento è sistematico e danneggia il lavoro del team, coinvolgi HR o il manager. Non è fare la spia: è tutela organizzativa. Vai con dati alla mano e focus sull’impatto lavorativo, non sul giudizio morale. E soprattutto, lavora sui tuoi confini. Se ti trovi costantemente a rincorrere per difendere il tuo lavoro, chiediti: sto dando troppo in un contesto che non mi valorizza? A volte il vero segnale non è “come cambio l’altro” ma “forse è ora di cambiare posto”.
Il paradosso finale: quando mentire è un grido d’aiuto
C’è un ultimo aspetto, forse il più controintuitivo di tutti. In molti casi, questi comportamenti sono una forma disfunzionale di comunicazione: “non mi sento abbastanza”, “ho paura di fallire”, “non so come essere visto senza questi trucchi”. Ovviamente questo non giustifica nulla e non toglie responsabilità, ma può aiutarti a non prenderla sul personale.
E se sei tu a riconoscerti in alcuni di questi pattern? Il primo passo è l’onestà brutale con te stesso. Chiediti: cosa mi spinge a esagerare? Di cosa ho davvero paura? Cosa succederebbe se mostrassi il mio lavoro per quello che è, senza filtri? Gli studi su autenticità e benessere convergono su un punto: nel lungo periodo, un comportamento autentico e coerente con i propri valori è associato a maggiore benessere psicologico e minore stress rispetto a strategie di finzione continua.
Non perché il mondo del lavoro sia giusto – i dati su stress e precarietà raccontano il contrario – ma perché mantenere una facciata richiede un’energia mentale mostruosa, aumenta l’ansia di essere smascherati e prima o poi entra in collisione con la realtà. La vera sicurezza professionale non nasce dall’apparire perfetti, ma dal costruire competenze solide, relazioni autentiche e una reputazione basata su fatti concreti e affidabilità. È meno spettacolare, certo. È meno instagrammabile. Ma è sostenibile nel tempo e compatibile con il tuo equilibrio mentale. E questo, alla fine, vale molto più di qualsiasi promozione rubata con una bugia ben confezionata.
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